Trovate il mio Ivan!
La guerra in Ucraina e i bambini: Che fine hanno fatto i bambini in Ucraina? Perché nessuno parla di loro?
C’è una parte della guerra in Ucraina di cui i media non parlano molto. Ma anche io non posso farlo, è pericoloso, perché questa parte riguarda l’Ucraina dei bambini e delle persone disagiate che non vivono a Kiev, nella grande città, ma nei piccoli paesi delle regioni confinanti.
Bambini che vivono in un orfanotrofio, perché hanno perso i genitori, bambini che vivono in ospedali perché malati di cancro alla tiroide, ma anche bambini che vivono in povertà.
Dopo lo scoppio del reattore nel 1996, anche la guerra del Donbass nel 2014 ha contribuito al crollo dei salari e alla chiusura di piccole aziende che erano appena nate con l’indipendenza dell’Ucraina. Ma ha anche contribuito a peggiorare la situazione sanitaria. Ecco, di queste persone, che non sono politici e non girano con armi in mano i media ne parlano poco. Eppure sono tanti, se ancora vivi.
A nord dell’Ucraina, vicino alla Centrale di Cernobyl, dove sono stata nel 2004, vi sono piccoli paesi di campagna, proprio minuscoli, come quello in cui vive Ivan, il bimbo è cresciuto insieme alla mia famiglia.
Ivan (di cui non faccio il cognome per motivi di sicurezza) , è un vero Ucraino la cui vita è stata segnata dal dolore. Da piccolo lo scoppio del reattore della centrale di Cernobyl, non distante da dove vive, gli ha portato via il papà e Ivan ha dovuto crescere con la mamma che era senza lavoro.
Me lo ricordo il 24 dicembre del 1986, quando andai a prenderlo all’associazione con la quale ho collaborato come interprete di lingua russa, per aiutare i soggiorni di questi bambini in Italia. L’associazione si chiama Les Cultures di Lecco e da anni si occupa di far venire in Italia i bambini ucraini, almeno un mese all’anno, di modo che possano smaltire le radiazioni accumulate.
Aveva sei anni il giorno in cui arrivò; indossava un giubbetto estivo e aveva con sé un sacchettino di plastica contenente uno spazzolino da denti e un paio di mutandine.
Insieme a lui arrivarono molti altri bambini, tutti provenienti da zone disagiate, povere e zone dove i bambini, a causa delle radiazioni, soffrivano di strane malattie. Mi ricordo due gemelline che erano completamente senza capelli; altri bambini non avevano più i denti e la maggior parte di loro aveva il cancro alla tiroide. Noi abbiamo cercato di aiutare tutti.
Ivan con la mia famiglia è cresciuto; allora si attaccò così tanto a mio padre da chiamarlo “papà Luigi “ e ogni volta che doveva ritornare in Ucraina era una sofferenza. Ma sapevamo che l’anno dopo l’avremmo rivisto. Quando partiva si portava sempre a casa una valigia piena di giocattoli. Non li apriva mai in Italia, perché poi, ho scoperto, nel suo paesino li rivendeva per guadagnare qualcosa. E’ stato fortunato anche perché coi i soldi che siamo risusciti a raccogliere tramite parenti ed amici in campagna lui si è comprato una casetta per la mamma e una mucca.
Quando Ivan è diventato adulto è stato più difficile invitarlo: ormai faceva parte della nostra famiglia, della nostra cerchia di parenti e ci mancava molto. Allora nel dicembre del 2004, preparai la valigia, piena di giocattoli, vestiario e cibo e comprai un biglietto per Kiev.
Il viaggio fu molto lungo. A Francoforte persi la coincidenza con la linea di volo Ucraina e arrivai Kiev senza la mia valigia. Sola, con qualche dollaro in tasca presi il pullman per arrivare nella zona di Cernigov: 200 km senza riscaldamento con un temperatura esterna di meno 22.
Ma non mi pesava il freddo. Il mio cuore era pieno di gioia perché potevo riveder il nostro Ivan. Dopo aver passato la notte da Valentina (la responsabile dei soggiorni), il giorno dopo venne un autista a prendermi, chiamato dall’associazione e ad accogliermi la mamma di Ivan che indossava la giacca di montone che le avevamo regalato. Dopo due ore di macchina arrivammo nel paese di Ivan, in piena campagna, la campagna Ucraina dei sopravvissuti alle radiazioni, alla guerra del Donbass. Un piccolo paese di 300 abitanti con un negozio, dove vi erano degli scaffali quasi vuoti e le persone giravano ancora sui carri trainati da cavalli. Sembrava di essere tornati indietro nel tempo.
Ricordo però il calore con cui mi accolsero. Avevano una gratitudine infinita, che mi scaldava l’anima. Mi ospitarono a pranzo nella loro casetta (il bagno fuori in mezzo alla neve costruito con assi di legno) e mi prepararono cibo a volontà.
Tutto il paese quel pomeriggio venne a farmi visita come se fossi stata una persona famosa, e tutti ringraziavano l’Italia. “Grazie italiani, perché ci aiutate. Grazie per quello che fate”.
E io ero orgogliosa, perché davvero con l’associazione di lecco ci siamo fatti in quattro per aiutare questi bambini. Ad ogni soggiorno organizzavamo visite mediche, anche molto importanti.
Quel giorno vennero a farmi visita anche i bambini che erano stati ospiti dell’Onorevole Cervetti, con cui lavorai qualche anno per l’associazione Vera Brianza di Monticello, che si occupava di export nei paesi dell’ex Unione Sovietica, per la quale lavoravo come interprete.
Poi nel 2012 è morta mamma e tramite l’associazione abbiamo fatto ritornare Ivan a casa nostra. Era ormai un uomo di 26 anni. E’ stato con noi per un po di tempo. Ricordo ancora le lacrime quando ci siamo riabbracciati.
Ritorno al presente, all’incubo che stiamo vivendo.
Il 24 mattina ero a scuola, non avevo ancora letto i giornali. Ricevo un messaggio da papà : chiama Ivan. Mi collego col cellulare e vedo che Putin ha dichiarato guerra all’Ucraina.
Da conoscitrice della politica di russa me lo aspettavo, ma forse non adesso e forse pregavo che ciò non avvenisse mai. Anche se la notte precedente il discorso di Putin alla nazione era chiaro e perentorio: rivogliamo l’Ucraina. Con l’angoscia in gola provo a chiamare subito Ivan e lui frettolosamente mi risponde: Simona, non posso parlare ora sono coi soldati, e chiude il telefono.
Da allora io riprovo ogni giorno a chiamarlo, ma nulla il telefono è spento. Neanche Valentina, con la quale riesco a scambiare qualche messaggio su WhatsApp nascosta in un bunker, sa nulla di lui. Di tutti i bambini che aiutava non sa più nulla. O forse non può dirci nulla perché teme di essere trovata. Le chiedo: che fine ha fatto Ivan? Ma la mia domanda è più generale: che fine hanno fatto Sasha, Nina, Anna, Serezha e tutti gli altri bambini che sembravano avere una speranza con questi soggiorni?
Valentina nei suoi brevi messaggi mi racconta che tutto è stato distrutto, che anche lei ha dovuto nascondersi, per questo non aggiunge altro. Gli orfanotrofi che vi erano non ci sono più, e tanti bambini anche, pare abbiano perso la vita schiacciati dalle bombe lanciate dai russi.
Mi chiedo: perché i bambini? Cosa centrano con la guerra? Perché devono subire questa violenza?
Una nota del ministero dell’istruzione, pubblicata in questi giorni, ci invita a parlare a scuola della situazione attuale citando dell’articolo 11: la Pace.
Si, la pace. La stiamo aspettando ogni giorno. Le teorie sono tante, i giornalisti che scrivono cercano di dare spiegazioni a questo conflitto: tutti hanno ragione e tutti hanno torto. Da conoscitrice del mondo ex sovietico dico che non sarà facile. Ma spero di sbagliarmi. L’Ucraina è una delle repubbliche più ricche di quelle che l’ex Impero Sovietico ha perso e anche una delle più aperte mentalmente.
E la Russia non teme sanzioni ne vuole trattare. La dittatura non conosce il dialogo. E’ difficile raccontare della pace ai miei studenti, quando le scene che vedono in televisione sono quelle di una guerra, obsoleta nella sua espressione ma sanguinaria; una guerra che non ci doveva essere e che deve essere fermata a tutti i costi.
I bambini non c’entrano. I bambini devono crescere, devono vivere.
La cosa che più mi rattrista è pensare a cosa ne è di Ivan e perché non risponde al telefono. Lui che amava il suo paese e alla domanda: “vuoi restare in Italia”? rispondeva fiero: ”No, voglio andare in Ucraina, perché è il mio paese e amo il mio paese”.
Provo a ricontattare Valentina, non mi rassegno, ma non ho più risposta. Contatto la Croce Rossa italiana, la quale gentilmente mi offre il suo aiuto e scrive alla Croce Rossa di Kiev. Ma nulla. Passano i giorni e di Ivan non si sa nulla. Ogni sera gli scrivo su WhatsApp: Ivan, abbiamo i mandarini e la coca cola che tu amavi tanto. Rispondimi! Ma il telefono è sempre spento. I messaggi non gli arrivano. E io continuo a pregare.
Quello che posso fare e sto facendo è collaborare con tante altre associazioni italiane per raccogliere cibo, vestiti, soldi. E spero. Spero che un giorno Ivan riaccenda il telefono, che sia vivo. Ma spero prima di tutto che questa guerra finisca. Una guerra che sta uccidendo tanti civili, che con la politica non c’entrano nulla. E mi addormento la sera con il volto di Ivan nel mio cuore.