L’omino magico- i bambini con la guerra non centrano
È stato gettato a terra contro il muro della palestra, con violenza come si lanciano le bestie. L’uomo imbavagliato gli ha sferrato due calci, poi ha puntato la canna del fucile sotto il suo mento, sollevandogli la testa “Chi sono io secondo te? Un russo…un ceceno? Chi sono io? Ti faccio paura vero? Avanti stupido bambino rispondimi altrimenti ti farò saltare il cervello fino a far schizzare il tuo sangue su tutti muri”. Murat è a terra a cavalcioni, trema ma alza lo sguardo verso quell’uomo e tenta di rispondere alle sue provocazioni balbettando. Sente che se non dirà nulla, egli con tutte le probabilità davvero farà partire un colpo dal suo fucile e allora non potrà più vedere sua madre. Risponde con parole biascicanti “Signore… Lei è un signore grande, io invece sono un bambino signore, non so se russo, o ceceno io conosco solo russi, perché qui sono tutti russi” si interrompe, gli viene il magone e la voce si perde tra i respiri affannosi di chi sta ammassato uno sull’altro.
Il terrorista lo guarda con disprezzo; come ha osato quel bambino rispondere davvero alle sue provocazioni?
Non può e non deve farlo. Si sente preso da due istinti, ammazzarlo o far finta di nulla. Esita, gli tremano le mani, gira il volto, sputa sul pavimento “Che il diavolo ti porti…stupido bambino”. Si agita, mette la mano sul grilletto e sta per premerlo. Murat percepisce le sue intenzioni, lo guarda con una smorfia di dolore, lo supplica con lo sguardo a non fare ciò che teme. Intanto gli altri terroristi si sono momentaneamente allontanati. “Andrezha di là” grida uno di loro all’uomo imbavagliato mentre esce dalla palestra. “Oggi è la tua giornata fortunata bambino russo”, stacca la mano dal grilletto e si allontana farfugliando frasi incomprensibili.
Murat continua a tremare, ha paura “Dove sei? Perché non vieni a salvarmi? – dice e comincia a piangere.
Fa molto caldo in quella palestra. Ammassati uno sull’altro alcuni bambini piangono ininterrottamente, e questo aumenta l’ira dei terroristi. Murat cerca con lo sguardo i suoi insegnanti ma la vista dall’altra parte della palestra non ci arriva. Sente dei crampi ”Cosa ci faranno adesso?”. Passano altri minuti interminabili. Qualcuno grida ”Lasciateci andare per l’amore di Dio”, Murat è stanco, la tensione è troppa. Appoggia la testa sulle braccia e si addormenta.
Nel sogno Murat corre, vuole raggiungere il padre. Lo scorge in lontananza intento a raccogliere le barbabietole nel Kholkoz, dove lavora da una vita intera.
Corre Murat, corre forte.
Il sole è alto e scalda come una torcia, e mentre corre ansima e sente la maglietta appiccicarsi al dorso per il troppo sudore. Vuole raggiungere il padre più in fretta possibile. “Papà, papà! E’ buio andiamo a casa!”” Hai fatto i compiti?” gli grida Andrei vedendolo all’orizzonte. Murat si avvicina, non gli risponde ma comincia a ridacchiare in un modo così naturale tanto da intenerirlo. “Ho capito non hai nemmeno aperto i quaderni. Andiamo a casa dai, ti aiuto io”. ” E si avviano verso casa mano nella mano.
La sera al Kholxoz Murat dal padre ci andava davvero, ogni giorno.
E al povero Andrei dopo cena, appena Tatjana aveva sparecchiato la tavola, toccava stare in cucina per aiutare il figlio coi compiti. ”Dai domani pà” “Come domani? Per domani mattina devi finirli! Non vorrai fare la mia stessa fine! Ah, ti ci mando io nei campi se adesso non apri i quaderni!”. E mentre stava seduto vicino a Murat, Andrej sentiva la stanchezza accumulata durante la giornata entrare nelle ossa, tanto che spesso appoggiava la testa sul davanzale e gli occhi gli si chiudevano da soli e si addormentava. Nei suoi sogni vedeva il figlio diventare un medico, un ingegnere. Murat sarebbe diventato l’eroe della famiglia e forse anche di tutto il suo paese.
Non voleva che facesse la sua stessa fine.
Finita la scuola dell’obbligo Andrei era andato a lavorare nei campi, in un kholkoz della regione, era l’unico modo per sposare Tatjana. Ma dopo anni passati a lavorare la terra, a vangare con il suo sudore, aveva capito che forse sarebbe stato meglio intraprendere un’altra strada e magari diventare un impiegato statale e stare seduto al caldo in un vecchio e obsoleto ufficio di qualche amministrazione provinciale. Sarebbe stato tutto diverso, anche se amava stare all’aria aperta. Per questo motivo voleva che Murat riuscisse bene a scuola.
Pa, i compiti li ho finiti.
Approfittando della stanchezza del padre, Murat era solito sussurragli “Pa, non ti preoccupare i compiti li ho finiti”, poi gli appoggiava una coperta sulle spalle, spegneva la luce e andava a dormire. E Andrej che si svegliava a notte fonda , apriva a lo zainetto di Murat, prendeva il quaderno dei compiti e li completava come era capace, cercando persino di imitare la scrittura del figlio. Non lo aveva mai detto a Murat e il figlio aveva cominciato a credere che esistesse un omino magico che la notte andava a trovarlo e finisse i compiti per lui. Capitava anche che si nascondesse per l’intera notte dietro la porta socchiusa della sua camera per cercare di vederlo. “Omino magico vorrei conoscerti”, poi stanco si buttava sul letto “Io ti voglio bene perché tu mi aiuti sempre. Sono sicuro che un giorno ti fai vedere” e spegneva la luce.
Murat si è svegliato, i pianti dei bimbi più piccoli fanno eco in tutta la palestra.
Quando gli uomini armati sono entrati nella scuola li hanno costretti ad ammucchiarsi qui dentro. “Dovete stare zitti” grida uno di loro con una ferocia spietata. Un insegnante si alza e si avvicina ad alcune donne che continuano a piangere in maniera incontrollata. L’uomo incappucciato vicino alla porta centrale fa partire dei colpi di mitragliatrice, e questo si accascia sul pavimento”Se un solo uno di voi si lamenta ancora ne uccideremo un altro.”…..
Vicino a Murat è rannicchiato Ivan.
E’ un suo compagno della terza classe“ho sete Murat” bisbiglia ma non fa in tempo a finire la frase che uno degli uomini imbavagliati, dei tre rientrati dalla palestra lo sente. Gli si avvicina e gli punta la canna del fucile sotto il mento, sollevandogli con questa la testa ”Hai sete? Sai cosa ti faccio bere adesso?” Murat osserva impietrito “Non rispondere, stai zitto” bisbiglia. “No signore” risponde Ivan con lo sguardo offuscato dalle lacrime” Bene adesso ti pisci addosso e poi bevi. Fallo altrimenti ti ammazzo.” Lo prende per i capelli e lo trascina fuori. Si ente urlare, è Ivan. Murat è in preda al panico, gli viene da vomitare, chiude gli occhi“Ti prego vieni a liberarmi, lo so che puoi venire”. Passano cinque minuti, il terrorista rientra trascinando a terra Ivan, sporco di sangue sul viso. “Brutto moccioso, adesso hai ancora sete?” e lo spinge all’angolo. Tira fuori una sigaretta dalla tasca “Dima, al diavolo, dammi il fuoco”.
Il cinque settembre, il primo giorno di scuola, a Beslan era giorno di festa.
Alunni e i loro insegnanti si preparavano a festeggiare con canti e danze l’inizio del nuovo anno scolastico. Quel giorno Tatjana non era ancora arrivata a scuola, perché si era recata prima nella merceria di Tamara, a comperare dei nastri per le sue alunne. Avrebbe iniziato a lavorare solo nel pomeriggio. ”Ne voglio due metri di quello rosa, sai le mie bambine sono vanitose”. Quando Tatjana vide entrare Anna ansimante e con uno sguardo terrorizzato capì subito che era successa una disgrazia. “E quando è successo ?”“Dimmi, Murat dove è? L’hai visto?” Ma Anna sconvolta non ascoltava già più e continuava a ripetere “E’, è una disgrazia, è una disgrazia! i nostri bambini, Dio ci salvi”.
Tatjana non aveva nemmeno salutato Anna ed era uscita sbattendo la porta di vetro.
Nel quartiere si udivano già le sirene delle ambulanze. Tatjana pensò di raggiungere subito la scuola, ma file di persone avevano già bloccato l’entrata e nonostante provasse a farsi largo non riusciva a vedere nulla di quello che stava accadendo. Pensò ad Andrej “Devo correre da lui. “Andrei Andrei corri è successo l’inferno.”gridò appena lo vide in lontananza. Nel Kholkoz nessuno sapeva ancora nulla e appena Tatjana si fermò, venne assalita dai colleghi di Andrej “Non so, non so ancora nulla, ma è una tragedia, lo sento”. E si preparano tutti a lasciare il campo sulle loro utilitarie.
L’aria si fa più pesante, i pianti dei bambini aumentano.
Qualche insegnante cerca di alzarsi per tranquillizzarli mentre i terroristi, tutti con il volto coperto da cappucci, innescano esplosivi e collegano fili sulle loro teste. Ci sono ordigni dappertutto: sul pavimento sporco di sangue, sulle finestre, perfino nei canestri da basket. In questa specie di accampamento manca l’aria. Uno dei terroristi, preme il piede su un libro posato sul pavimento, all’interno del quale pare nascosto un detonatore. Accanto, sempre sul pavimento, giace un lanciagranate. “Non portare ancora qui i bambini”, ordina uno dei degli uomini armati, mentre un altro continua a collegare i fili.
Ivan si lamenta, gli duole il capo.
“Ivan, Ivan non farti sentire” gli bisbiglia Murat, “se ti sentono questi ti ammazzano”.”Murat sto male, tanto male. “ “Adesso lui viene a liberarci, vedrai Ivan, stai tranquillo”. Ivan abbassa il capo sulle braccia e chiude gli occhi. “Muoviti omino magico, Ivan sta tanto male e anche lui ha bisogno del tuo aiuto”.
Fuori dalla scuola.
All’esterno le torce elettriche illuminavano a giorno ogni angolo, nonostante fosse ormai buio. La folla cominciava ad accalcarsi sempre più davanti al cortile della scuola e la milizia locale faceva fatica a raggiungere i posti di blocco prefissati. Nel pomeriggio alcuni bambini erano riusciti in qualche modo a scappare dall’edificio e masse di persone quasi impazzite cercavano di rompere gli argini umani fatti dai soldati per cercare di raggiungerli. Si vedevano uomini correre con piccoli corpi di bambini denudati e stanchi tra le braccia e le donne si avvicinavano con la speranza di riconoscere il proprio figlio. Anche Tajana e Andrei avevano trovato posto non molto lontano dalla facciata anteriore dell’edificio. Avevano tentato di avvicinarsi di più al cancello ma vi era troppa gente che spingeva e si accalcava. Era arrivata anche la tv locale e i fotografi. “Avviciniamoci di più Tatjana” e Andrei la tirò per il braccio destro, facendosi spazio tra alcuni volontari “forse da vicino riusciamo a vederlo… “.
“Ivan stai bene?” sussurra Murat al compagno che sembra non dare più segno di vita.
Ivan non risponde. E’ pallido, ha il viso sporco di sangue. Murat allunga il braccio come a scuoterlo, ma niente da fare, Ivan non si muove. “Devo andarmene da qui, devo aiutarlo”. Lancia uno sguardo verso la porta che da sui bagni. “Se mi muovo lentamente –pensa- forse non mi vedono. Si, quando si gira…” L’uomo davanti a lui però non si muove. Ha un kalashnikov in mano e con una corda legata ad una piccolo ordigno attaccata al soffitto della palestra. Serhezha è rannicchiato dietro Murat. Intuisce ciò che Murat vuole fare e lo supplica con gli occhi di non muoversi. Ma Murat non gli bada. Nel momento in cui il terrorista preso dalla stanchezza posa il Kalasnhikov sul davanzale della finestra , striscia verso la porta fino a raggiungere l’entrata dei bagni.
La paura di Ivan.
Accosta l’orecchio destro alla porta e non sentendo rumori sgattaiola dentro. Intanto dal corridoio laterale ai bagni si sentono dei passi. “Adesso cosa faccio?” E’ stanco, e non ce la fa più a reggersi sulle gambe. “Se uscissi da questa porta? Potrei raggiungere le scale e scendere fino al primo piano, e poi scappare dalla finestra….E se mi vedono? Dove sei? “. Intanto il rumore dei passi diventa più forte. Gli viene da piangere. “Vai nei bagni” si sente urlare ”Ma non c’è nessuno ho già controllato” Al diavolo, ti ho detto di andarci, sono io che comando qui. E se c’è qualcuno fallo fuori subito!” “Ma chi vuoi che ci sai li?” Al diavolo, ci vado io”.
“Cosa faccio adesso?” pensa Murat. Viene preso dallo sconforto ”Omino magico vieni a prendermi ti prego”.
“Andrei non puoi stare tutto il giorno steso sul letto…” “E cosa mi resta da fare ora che non c’è più” e si voltò sul fianco sinistro. Chiuse gli occhi e si addormentò.
Nella palestra dopo tre giorni erano entrate le forze armate e avevano preso i terroristi.
Ciò era costata la vita di molti bambini e ora a Beslan toccava solamente fare i conti dei morti e provvedere al loro funerale. Pochissimi erano i sopravvissuti. Centinaia di corpi, coperti da lenzuola grigie, giacevano nella piazza principale in attesa di essera ancora riconosciuti. Tra questi anche il corpo del piccolo Ivan, morto per le percosse subite. Vi erano altri corpi resi irriconoscibili dagli ordigni. Alcune persone avevano deposto sopra questi le foto dei loro figli, poichè ne avevano riconosciuti gli indumenti.
Dove è Murat?
Altri avevano scelto un corpo a caso, poiché nemmeno gli indumenti erano riconoscibili ma era più facile per loro pregare per qualcuno piuttosto che accettare l’idea di non ritrovare più i loro cari. Andrei invece non si era rassegnato. Murat non era stato trovato, e quando davanti a quei corpi stesi nel giardino della scuola gli avevano chiesto di indicare chi assomigliasse più a Murat, non lo aveva fatto, non voleva. Anche se la speranza cominciava ad affievolirsi non gli bastava un corpo qualunque su cui pregare. Fu Tatjana a convincerlo. “Andrei, se non sappiamo per chi pregare, preghiamo almeno per uno di loro. Le preghiere arriveranno anche a lui”. E così il quarto giorno Andrei si alzò dal letto, mise la camicia della festa e la giacca marrone, andò in bagno, si fece la barba e si pettinò “Andiamo Tatjana è ora.” Uscirono di casa salirono sul tram 52 e si diressero verso il cimitero comunale.
La cerimonia era durata alcune ore e alla fine Andrei non aveva più le forze di reggersi in piedi.
Non volle però andare subito a casa. Salutò Tatiana e si diresse verso quello che era rimasto della scuola. Di fronte all’edificio, che oramai sembrava uno scheletro, le ruspe si erano fermate e c’era silenzio. All’entrata vi erano travi d’acciaio piegate dal calore dell’incendio, ruderi da tutte le parti. Andrei camminava con le spalle basse e gli occhi puntati sull’asfalto. Si ricordava che il prete durante la cerimonia aveva più volte ripetuto “ Questi bambini sono eroi, morti per la propria patria”. Ma ad Andrei, che lavorava nei campi e guadagnava a sufficenza per sfamare il figlio e la moglie, a lui non interessava nulla della sua patria.
Quale patria? Una patria oramai distrutta e lacerata dal dolore?
Ma non bastava un pezzo di pane per vivere durante il comunismo? Si accontentavano anche di questo. Ora invece volevano l’indipendenza, la libertà. Per questo – avevano detto – quei terroristi armati erano entrati nella scuola, per la libertà. Ma la libertà di fare cosa? Quella tragedia non sarebbe dovuta succedere perché quei bambini innocenti non centravano nulla con la loro libertà.
Si fermò davanti la scuola distrutta.
Si fermò davanti al cancello, guardò in alto verso la finestra principale della palestra, ridotta oramai a scheggie di vetro, sperando di vedere ancora una volta il volto di Murat sorridente. Poi con le forze che gli erano rimaste superò le sbarre messe dalla milizia locale e entrò nell’edificio. Raggiunse la classe 5°, quella di Murat. Le pareti dell’aula erano imbrattate di piccole macchie di sangue e impregnate dell’odore acre lasciato dagli spari e dalle bombe usate per i blitz.
Riconobbe il banco del figlio, si avvicinò e si sedette.
Si ricordò del primo giorno di scuola, il primo di quella tragedia. Forse lui avrebbe potuto fare qualcosa, fermare quegli uomini armati che senza pudore e umanità erano entrati correndo con i fucili puntati in avanti e coperti di maschere, così gli avevano raccontato. Avrebbe potuto armarsi e correre dentro insieme ai milizionieri. Ma sarebbe servito un suo gesto eroico per salvare tutti quei bambini? E per salvare il suo Murat?
E se invece Murat fosse stato già morto prima del blitz?
Gli pareva ancora di sentire gli spari, le urla di quei bambini, picchiettii che rimbombavano sui muri, su superfici di metallo. Li aveva così chiari nella sua mente che sembravano ancora veri. Su superfici di metallo? Come era possibile? Se si trattavano di rumori confusi, come faceva a distinguere in maniera così chiara quel singolo suono? Cercò di non pensarci più. “Ha ragione Tatjana sono troppo stanco, devo riposare” Eppure quel rumore continuava. Si alzò di scatto dalla sedia spaventato. Capì che picchiettio che rimbombava forte nelle sue orecchie non era un pensiero, era vero!
Forse qualcuno era ancora vivo da qualche parte, doveva assolutamente cercarlo.
Corse fuori dall’aula e si mise a perlustrare tutte le aule del primo piano, ma nulla. Probabilmente stava andando nella direzione sbagliata. Ritornò verso la scala principale dell’edificio, salì al primo piano e anche qui attraversò il corridoio centrale. Nulla nemmeno qui. Riprese le scale e salì al secondo piano fino all’entrata della palestra. Già, nella palestra. Ma come era possibile? Gli uomini della milizia avevano perlustrato tutta l’edificio e non avevano trovato superstiti. E se non avessero perlustrato a fondo?
Dove avrebbe cercato ora?
Entrò in questa ma nulla, come si immaginava. Quel rumore doveva venire da un’altra parte. Si guardò in giro. Vicino alla palestra vi erano i bagni. Si, non poteva che provenire da li il rumore. Con foga spostò i mattoni e le lastre di cemento che si erano accumulate davanti alla porta ed entrò. Si guardò attorno ma anche qui nessuno. Intanto il rumore era cessato.
C’è ancora qualcuno vivo!
“Vi assicuro che c’è ancora qualcuno vivo nella scuola!” disse Andrei ansimante al milizioniere che gli stava di fronte.” “Si calmi” rispose Dimitri Ivanovic, il comandante della polizia locale. Lo fece sedere, gli diede un bicchiere d’acqua “Mi dica cosa è successo”. “Vi prego, correte, qualcuno è ancora vivo e se non andate subito rischiate di non trovarlo”e iniziò a raccontare tutti i particolari. Dapprima il comandante non credette alle parole di Andrei. Pensò che quello fosse solo un gesto di un padre disperato per la scomparsa del figlio e che non si voleva rassegnare. Spiegò ad Andrei che i suoi uomini avevano perlustrato la scuola da cima a fondo e che non avevano trovato più nessuno vivo. Ma Andrei insisteva “Vi dico che quel picchiettio c’era, ve lo assicuro!” Dimitri Ivanovic si impietosì e decise di mandare i suoi uomini a controllare. “Vi ringrazio, vedrete che ho ragione. ” Si alzò, si mise il suo berretto e sempre a testa bassa si avviò verso casa.
Due giorni dopo la città era ancora il lutto, tutte le scuole erano state chiuse e la gente seppelliva gli ultimi corpi.
Andrei era a letto, mentre Tatjana stava sul divano a pregare. Ad un tratto qualcuno bussò alla porta. “Tatjana Andreevna c’è un telegramma per voi” gridò ansimante il portalettere Sergej. Un telegramma? E chi poteva scrivere loro un telegramma? Tatjana aprì la porta, strappò il telegramma di mano a Sergei e lesse: I signori Andrievic sono inviati a recarsi all’ospedale Lenin del quartiere Jaroslvaskij per l’identificazione di un bambino che, a detta di altri testimoni, pare essere vostro figlio Murat ”. Il telegramma le cadde dalle mani. Prese il fazzoletto dalla tasca del grembiule. Si asciugò la fronte grondante di sudore. Salutò frettolosamente Sergej e corse in camera “Andrei, Andrei alzati dobbiamo andare all’ospedale, c’è un bambino ancora vivo che ancora non è stato identificato.
Cè un bambino ancora vivo!
Dicono che assomiglia a Murat”. Andrei si voltò, si mise seduto sul letto e guardò Tatjana incredulo “Ma cosa stai dicendo?” ”Dobbiamo andare subito all’ospedale per il riconoscimento.” Andrei cominciò ad agitarsi. Murat poteva essere il loro Murat, ma se non fosse stato lui?
Saltò giù dal letto, si vesti e insieme a Tatjana raggiunsero la fermata del 35.
L’ospedale distava dal loro quartiere almeno un’ora di strada. Un’ora interminabile e pesante, un’ora in cui si alternavano sensazioni belle, brutte, speranza e delusione. Si tenevano le mani strette una a quelle dell’altro. Avevano bisogno di infondersi speranza, di darsi sicurezza. Ad attenderli vi era una infermiera dal viso paffuto che li accompagnò direttamente al reparto animazione, fino alla stanza 142. Ad Andrei tremavano le gambe e camminava quasi barcollando. “E’ qui dentro, non parla ma è cosciente” disse l’infermiera Olga.
Possono succedere miracoli nelle tragedie?
Si pensò Andrei quando vide quel bambino steso sul letto, incosciente. “E’ lui, mio figlio, è mio figlio! Lo abbracciarono, lo accarezzano, gli parlarono. Restano li inginocchiati ai piedi del letto per tutta la sera.
Non aveva più scampo Murat quando sentiva avvicinare i terroristi. Si accorse però che di fronte ai lavandini vi era un piccolo sportello di metallo. Lo aprì e vide che era la botola dove venivano messi i rifiuti che poi finivano nel locale sottoterra. Non poteva più permettersi di aspettare, uno dei terrostitsi si stava avvicinando. Si infilò dentro e facendosi spazio tra i sacchetti di plastica, abbandonati dalle donne delle pulizie, con la mano destra afferrò lo sportello e chiuse la botola.
Era stato l’omino magico?
Quando il milizioniere stava per scendere le scale e dirigersi verso l’uscita, il cane dinanzi alla porta dei bagni, aveva comiciato ad abbaiare. Allora si era messo a togliere la terra con le mani urlando, “C’è qualcuno dentro? “ ma nessuno rispondeva. Riuscì a farsi strada fino all’interno e il cane si avvicinò alla botola continuando ad abbaiare. Il milizioniere aprì la porta e dentro vi trovò Murat, col viso stremato e senza forze.
Chiusegli occhi e svenne.
Lo sportello della botola era di un acciaio vecchio, di spessore consistente, ed era stato proprio questo a preservare Murat dalle bombe dei soldati. ”Mio Dio aveva ragione quell’uomo a dire che c’era ancora qualcuno!”. Il milizioniere cominciò a toccarlo per sentire se fosse ancora vivo e lo incitò a parlare. “Come ti chiami bambino?” Murat non rispondeva. Non riusciva a parlare ma era vivo, e capiva che finalmente lo stavano liberando. “Sono Murat, figlio di Andrei. Ditemi, cosa è successo ai mie compagni?” avrebbe voluto dire al milizioniere ma non ce la faceva “ Io sono qua perché l’omino magico mi ha detto che dovevo entrare nella botola, chiudere gli occhi e aspettare….sei tu il mio omino magico?” ma ancora non gli uscì nulla. Chiuse gli occhi e svenne.
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