PRENDIMI L’ANIMA. A volte mi capita di camminare per strada e sentirmi un po’ come il brutto anatroccolo della famosa favola che viene scacciato da mamma anatra per la sua bruttezza e diversità. Eppure ho due gambe, due braccia, due occhi e una testa per pensare e fare quello che mi si dice di fare. Forse anche di più ma non ho mai osato
E col passare degli anni ho visto la vita, in alcuni momenti, sfuggirmi di mano. Spesso mi sono adattata ad ogni circostanza che il destino mi imponeva e dentro il mio cuore cercavo continuamente persone che mi stessero accanto e con il loro amore potessero riempire il mio vuoto. A volte immaginavo che sopra la città vi fossero tanti palloncini colorati e appesi a questi persone sorridenti che si alzavano sempre di più e incontrandosi tra le nuvole si salutavano gentilmente.
Anche quando scrivo, mi sento pervasa di una natura selvaggia e incontrollabile.
Prendimi l’anima
Così spesso fuggo nel mio mondo fantastico e mi lascio cavalcare sulle nuvole e sul mare, perché attraverso la fantasia trovo un porto sicuro in cui approdare la mia barca che per anni ha navigato in balia del vento e della tempesta.
Prendimi l’anima
La mia storia è la storia di una donna qualunque, ma mentre prendo carta e penna e mi accingo a scrivere, come ho sempre fatto nei momenti in cui nessuno mi vedeva a conversare con la mia anima che rideva, mi rendo conto che ogni donna è diversa perché all’interno di ogni corpo c’è una specie di ”nocciolino” differente, particolare e unico, che irruente batte per uscire. E nei miei pensieri la figura femminile è associata a quella di una lupa selvaggia che corre nella foresta e in maniera armonica si muove a passi di danza e ulula alla luna la sua bellezza.
La forza delle donne
Ma se mi capita di osservare attentamente figure femminili che agili si muovono per le strade della mia città, mi accorgo che forse abbiamo dei tratti in comune. Tutte abbiamo il coraggio di capire dove possono arrivare i raggi del sole e illuminare gli angoli della nostra anima che soffrono. Solo che spesso copriamo lo sguardo con occhiali così scuri che non riusciamo a vedere cosa c’è in lontananza, o a chiederci cosa vi sia oltre ai momenti di dolore che oscurano i giorni di sole. Ci sono donne che hanno così paura dell’ignoto che non si fermano mai per guardarsi dentro e chiedersi quale possa essere la causa della loro sofferenza.
Allora a volte accogliamo i momenti tristi accettandoli come un pezzo del puzzle che compone la nostra vita. A tutte queste donne io dedico questa storia e in modo particolare ad una donna speciale, mia nonna Maria.
La mia storia
Quando venni al mondo i miei genitori volevano un maschio, ma nacqui io, una femmina di tre chili e mezzo. Allora fui il primo pensiero di mio padre che subito si chiese come avrebbe fatto una donna ad avere un carattere forte per difendersi dalle insidie del mondo. In una società dove chi nasce povero sa già che farà fatica, mentre chi nasce ricco può avere tutto, se sei anche una donna, allora già ti attribuiscono una debolezza innata in confronto alla forza degli uomini.
Come sarei sopravvissuta a tutto questo? Ho passato la mia infanzia a costruirmi delle corazze per affrontare il mondo cattivo – come lo vedeva il mio papà.
Prendimi l’anima
Il mio passato
Ma ero donna e mi sarei volentieri rifugiata nelle calde braccia materne. Solo che mia madre non aveva avuto accanto sua madre nella sua infanzia. E quindi anche se in cuor suo Dio sa quanto si è sforzata, non ha mai saputo amarmi veramente. Si dice che quando non si è amati in gioventù si cresce con un enorme vuoto che ci lacera lo stomaco e anche l’anima. E per mia madre, avida dell’amore di mio padre, diventai un ostacolo. E anche se avevo dei bei occhi color dell’ambra e dei bellissimi capelli scuri, davanti a lei ero solo coperta di piume nere come il brutto anatroccolo.
Se confronto la mia storia alle storie di altre donne che hanno sofferto, vedo luoghi diversi, case diverse, famiglie diverse, vedo padri con capelli scuri, brizzolati, madri con pelle liscia o con visi colmi del segno del tempo ormai passato. Tutte siamo cresciute in luoghi distinti e con persone tanto lontane fra loro per cultura per mentalità. Eppure se una donna non ha imparato a correre in mezzo ai campi coperti di fiori, sotto il sole o la tormenta, in mezzo a boschi irti di rami pungenti, i vuoti che nascondiamo sono identici. Ne cambia solo l’entità, ma tutte sicuramente abbiamo chiuso dentro mura pesanti la nostra anima che soffre per uscire.
Se scavo nel mio passato alla ricerca della mia fanciullezza, i ricordi sono sbiaditi. Ho solo attimi davanti a me, alcuni belli alcuni brutti, che si alternano in base al mio stato d’animo. Se con fatica tento di ricomporre il puzzle della mia esistenza allora la figura che ne esce è una immagine scura, che non riesce a delinearsi, come i quadri dei pittori astratti che hanno un senso solo se guardati con occhi dell’anima diversi e in varie prospettive. E il pittore che ha composto il mio quadro ha usato colori scuri, tendenti al nero. Mentre io cerco la luce.
Prendimi l’anima
La scrittura per me
Quando avevo sei anni un giorno a scuola la maestra ci disse di immaginarci un animale e di descrivere la nostra vita come se fossimo stati quell’animale. Mi ricordo che per una attimo fui libera di tirare fuori la mia parte selvaggia e mi immaginai un uccello dalle bellissime ali grandi e dorate e di volare in alto, tanto in alto, di girare terre e continenti e di vedere gente di ogni colore, di ogni età e di ogni statura.
Anche quando scrivo, mi sento pervasa di una natura selvaggia e incontrollabile.
Prendimi l’anima
La scrittura come salvezza
E nel mio vagabondare sopra la terra a contatto con le nuvole vedevo case e tetti spioventi e all’angolo di ogni casa persone felici che sorridevano, che si abbracciavano, che parlavano un’unica lingua e che cantavano un unico canto, quello dell’amore. La maestra rimase colpita da questo scritto e chiamò mia madre per dirle che secondo lei avevo una fantasia molto sviluppata. Forse era il mio nocciolino che si ribellava, la mia anima selvaggia che chiedeva di poter correre attraverso i campi verdi della mia vita? Poi non ricordo bene cosa successe. Penso che la risposta di mia madre fu questa: bene, sarà una cosa passeggera, tutti i bambini hanno fantasia.
Nel viaggio del mio passato dopo questa grigia immagine subentra un lungo susseguirsi di immagini scure. Qualche immagine è rossa. Odio il colore rosso perché mi ricorda il sangue, mi ricorda la violenza. Quella che io subii quando avevo dodici anni.
I momenti difficili
Lui aveva undici anni più di me e un giorno si presentò in casa mia chiedendo ai miei genitori di potermi frequentare. Mia madre fu subito molto felice di questo invito, perché nella sua infanzia le avevano raccontato che una donna nasce per fare una famiglia e per procreare. E come lei aveva vissuto quel destino già segnato, allora anche io dovevo conformarmi a quelle leggi già scritte. E forse quell’uomo, per cui non provavo nulla se non ribrezzo per il suo viso rugoso e la sua bocca piena di saliva che emetteva parole biascicanti, poteva essere l’uomo del mio destino segnato, colui che mi avrebbe condotta all’altare e colui che mi avrebbe permesso di procreare.
Col senno di adesso mi rendo conto che spesso i genitori ci addossano tutte le loro paure e che il pericolo dal quale ci difendono altro non è che il riemergere costante e desolato delle loro angosce. Riflettendo adesso a ciò che fu, mi rendo anche conto che inconsciamente accoppiandomi a quella figura vecchia e nera si sbarazzò, involontariamente di me, per recuperare l’amore che mio padre nutriva nei mie confronti.
La mia anima
Ma non disprezzo ciò che ho avuto. Il dolore mi porta ad amare di più non ad odiare. Ed è solo con l’amore che colmiamo la fame d’amore che abbiamo dentro. Mi ricordo di un film che ho visto di recente. Il giovane psicanalista August Jung guarì la sua paziente Sabrina Spielrein coprendola di amore. Jung donò un sassolino a Sabrina dicendole: questa è la mia anima, prendila e siine la custode, e Sabrina conservò fino alla morte l’anima di Jung. E il suo dolore si placò.
Noi siamo tutti i custodi di un’anima, forse solo la nostra, ma anche e soprattutto di questa dobbiamo averne molta cura. Se il mio cammino dentro le oscure vie di questa è stato intralciato da antichi dolori, da immagini funeste e da rami di alberi che ne intralciavano il percorso, tuttavia non disprezzo ciò che ho avuto. Dalla accettazione della sofferenza profonda c’è la catarsi completa, la vera resurrezione. Se ci ostiniamo a nascondere la parte marcia, quella schiacciata dai pesi del male, allora davanti a noi vedremo solo male.
Il significato della parola amore
Se mia madre ha avuto paura di amarmi, è perché nessuno l’ha mai amata veramente. Anche le sue croci sono state pesanti da portare e se avessi capito prima il suo calvario senza essere accecata dalla ricerca affannata di tante cose che non ho avuto, forse mi sarei messa di fianco a lei per aiutarla a sopportare quel peso e in fondo al quel cammino avrei posto fiori profumati e non filo spinato per dividere le nostre essenze. Solo il perdono porta alla purificazione, alla rinascita.
Allora avevo solo dodici anni. Quell’uomo abusò di me in molti modi e trasformò l’espressione più bella dell’amore tra un uomo e una donna in una catena pesante di cui ancora porto i segni sulla mia pelle. Nelle sue ruvide mani la bambina ingenua divenne una donna maledetta e forzatamente cresciuta. Ma allora non potevo parlare con nessuno. A chi potevo raccontare quel male? Chi avrebbe ascoltato la mia voce? Chi avrebbe medicato quelle ferite maleodoranti?
La nonna
Scappare fuori dalla stanza e vagare nel sole di un campo peno di grano per lasciare che il vento accarezzi il mio volto. Questo io amo più di ogni altra cosa. Il profumo del grano d’estate mi trasmette un senso di serenità interiore, di pace.
All’età di due anni i miei genitori mi affidarono alla cura di mia nonna.
Di quel periodo ricordo il profumo del pane dolce che la nonna mi portava a letto la mattina insieme una tazza enorme di caffè solubile. In questo primi anni della mia vita i colori scuri si attenuano, gli odori diventano piacevoli e ricordandone ne ho anche nostalgia. Mi sovviene anche il pane bagnato con lo zucchero nei pomeriggi d’estate quando il sole splendeva di un giallo tendente all’arancione nel giardino pieno di fiori della nonna, dove io giocavo quando tornavo dall’asilo consapevole che quella era la mia casa.
Ma anche la nonna non aveva ricevuto amore dalla madre, perché la perse all’età di tre anni, e io rimasi senza una figura forte e equilibrata a cui confidare le mie paure.
Prendimi l’anima
La vita di quegli anni fu per me un film già scritto per cui io ero solo la spettatrice seduta in un vecchio cinema di periferia a guardarne la trama senza farne commento.
Il coraggio di una donna
Ma quanto coraggio ha una donna? Ve lo siete mai chiesti? Quanta forza abbiamo di vedere anche nel dolore un raggio di pace e serenità? Ma quanto sappiamo correre noi donne lupe? E se tanto abbiamo visto sforzandoci comunque di continuare, e se tanto abbiamo rinnegato perché ci hanno obbligato a comportarci come i nostri avi ci hanno insegnato, nessuno ha tanta forza per ricostruire quanta ne abbiamo noi, perché il grido della lupa è dentro e non ci lascia mai.
E se fino a venti anni la mia solitudine era coperta dalla compagnia della nonna, la quale prendendomi per mano mi accompagnava nei verdi parchi cittadini, dove io dimenticavo ogni piccola paura, dopo la sua morte questa divenne una ferita profonda e lacerata.
Fu allora che per un lungo attimo persi ogni voglia di continuare a vivere. Non ricordo ormai più l’intensità del dolore perché col passare degli anni ho fatto di tutto per seppellirlo negli strati più profondi della mia mente. Ricordo però il peso che questo significò e l’immensa fatica che feci per superarlo.
L’amore si impara col tempo
Quando all’età di diciott’anni incominciai a provare le sensazioni, i brividi dell’innamoramento chiesi a mia nonna cosa significasse amare un uomo, ma la mia domanda non ebbe la risposta che mi aspettavo.
Come poteva sapere cosa significasse amare, quando all’età di diciassette anni, dopo una infanzia trascorsa in fabbrica per aiutare il padre e la sorella minore, fu costretta a sposare un uomo molto più vecchio di lei, che non aveva mai visto e che non le piaceva?
Si impara ad amare col tempo- questa fu ciò che disse – e se vuoi essere ricambiata devi meritartelo. E fu da quel momento che cercai in tutti i modi di meritarmi l’amore dei miei genitori. E più mi sforzavo e più mi rendevo conto che non ottenevo molto.
L’amore verso noi stessi
Solo ora capisco l’inutilità di quelle parole, l’assenza di ogni significato vero e profondo. Noi possiamo imparare ad amare solo noi stessi. Se non amiamo la nostra essenza non amiamo nemmeno il profumo e il colore di nessun altro.
Se disprezziamo il nostro colore, la nostra forma, il nostro profumo, tutti avranno paura ad avvicinarsi a noi. E la mia giovane nonna che in fabbrica aveva intravisto i bagliori di due occhi azzurri di un bellissimo suo coetaneo, fu costretta ad abbandonare questo sogno e ad inseguire quello dello sposo ricco che avrebbe contributo al mantenimento della sua famiglia. Tutto questo ora mi fa inorridire.
La violenza sulle donne
Come si può costringere un essere umano a lasciarsi toccare ed odorare da un estraneo? Forse non è anche questa una forma di violenza? E quante violenze siamo costrette noi donne a subire, in ogni modo in ogni parte del mondo?
Quando mia mamma aveva diciott’anni mio nonno morì. Forse per la nonna fu una liberazione, almeno spero. Da allora mia nonna visse nella casa del primo figlio, la cui moglie odiava mia nonna.
Il ricordo della nonna
Se voglio sorridere ricordando la nonna, mi sovviene il ricordo di quando la sera mi addormentavo vicino a lei e mettevo la mia testa sul suo lungo braccio e appoggiavo la mia gamba sulla sua grossa pancia. Quelle notti erano i momenti più sereni, perché accanto alla sua possente figura nessun mostro avrebbe potuto farmi visita.
Ma col passare del tempo le braccia solide della nonna cominciarono a diventare flaccide. E lei, forse stanca delle fatiche della vita, lentamente si fece prendere dalla malattia che poi la portò alla morte. In questo tratto della vita ho perso colori e odori.
Mia nonna fu costretta a restare immobile su una sedia a rotelle. Fu affidata così alle cure di mia zia, la moglie del suo primo figlio. Era lei a nutrirla, a vestirla e lavarla. Ma come potevo sapere che la sera lei piangeva perché aveva fame, perché l’unico pasto della giornata era un pezzo di pane e uno yogurt, come potevo capire che quando mia nonna doveva andare in bagno cercava di trattenere il tutto per la paura di essere picchiata come sempre succedeva perché mia zia non la voleva pulire?
Mia nonna allora aveva perso anche la parola e le uniche forze che le erano rimaste le utilizzava per respirare. E quando aveva sete non poteva bere, e quando aveva fame non poteva mangiare e rimaneva seduta sulla sua sedia rotelle accanto alla finestra.
Chissà cosa pensava quando non piangeva. Ma piangeva e quando io la salutavo per tornare al lavoro, stringeva forte la mia mano come per dirmi: non mi lasciare. Io la guardavo e con gli occhi la supplicavo: Nonna parlami, dimmi cos’è che ti tormenta, dimmelo.
Avevo smesso di vivere con mia nonna quando avevo iniziato le scuole superiori.
Pensavo di essere diventata ormai una persona adulta, anche se sapevo che avevo sempre bisogno di lei. Eppure durante quegli anni cercai di restarle vicino in tutti i modi. Spesso mi fermavo da lei a dormire, nella stanza accanto sul divano, oppure accanto a lei sul suo letto anche se il rumore assordante della radio che le faceva compagnia, mi dava fastidio, anche se spesso lei si svegliava di notte e piangeva in silenzio per non farsi sentire. Quando la sera la coricavo sul letto per lei era una sforzo fisco enorme, un dolore insopportabile. E la mattina quando ripartivo per il lavoro, accanto alla mia sofferenza di non poterle evitare il dolore della donna che la maltrattava, vi era la sua angoscia di rimanere sola con la sua carnefice.
Capii di aver perso definitivamente l’anima di mia nonna, quando una sera tornando dal lavoro mi chiese come era andato l’ultimo esame universitario, sostenuto anni prima. Nella sua mente ora non esistevano ne tempo ne spazio, ne odori, ne colori.
Quale calvario ho vissuto in quel periodo? Di fronte all’impotenza di non poterla aiutare non sapevo a chi confidare il mio segreto. Con chi avrei potuto parlare? Con mia madre che a sua volta non aveva mai parlato con sua madre? Ci ho provato credetemi. Quando si vede una persona soffrire si va oltre l’orgoglio e ci si abbassa in ginocchio per supplicare. Ho pregato mia madre di credere alle mie parole almeno una volta nella vita, ma se non mi aveva stimata abbastanza da piccola come poteva ora darmi fiducia?
In quel periodo dimagrii di dieci chili. Non mangiavo, non dormivo. Andavo a lavorare e tornavo la sera per badare alla nonna. Ero un automa.
Prendimi l’anima
La morte di mia nonna
I colori e gli odori di quel periodo sono annebbiati o forse troppo forti per essere ricomposti nella mia testa. Ricordo quella sera quando il prete venne a dare l’ultima unzione alla nonna. Allora decidemmo di portarla all’ospedale per tentare ancora di salvarle la vita. Non so se avesse voluto questo o avesse preferito morire.
Se la vita ci fa brutti scherzi a volte si preferisce pensare che al di la di questa vi sia un luogo dove davvero si possa riposare, dove tutto è colorato di bianco e azzurro e non ci sono ne dolori né sofferenze. Solo che nessuno ne ha certezza e il nostro egoismo di tenerci accanto le persone che amiamo diventa prioritario.
Quando mia nonna si svegliò nella stanza dell’ospedale disse queste parole: riportatemi a casa, voglio morire nel mio letto e non in una stanza di ospedale.
E così quando i medici ci dissero che non c’era più nulla da fare caricammo mia nonna sull’ambulanza per riportarla a casa. Io le sedevo accanto, le tenevo la sua mano penzolante e la guardavo. E mentre pregavo sentivo scorrere dentro il mio sangue tutta la sua sofferenza provata in quegli anni. Stesa su quel lettino ricoperto di lenzuola sbiadite, quasi gialle vi era una donna che in gioventù aveva corso come una lupa selvaggia e aveva attraversato regioni sconosciute dell’anima e continenti stranieri, ma che ora conservava attaccati al suo scheletro solo brandelli di carne.
Il silenzio della morte
La sua anima già se n’era andata verso luoghi felici. Fu in quel momento che desiderai la sua pace, il suo riposo, perché allora capii che la sua lupa selvaggia era ormai stanca di ululare e correre tra i prati verdi della terra.
Quando gli infermieri sdraiarono mia nonna sul suo letto successe un miracolo. Venne allora a farle visita il suo secondo figlio, che lei non vedeva da dieci anni. Lei capì che davanti al suo capezzale era ritornato il figliolo prodigo, e miracolosamente aprì gli occhi e si mise a sedere. Spesso ci sono forze miracolose di cui non possiamo avere conoscenza. Chi le avesse dato così tanta forza in quel momento non so spiegarmelo.
Il silenzio della malattia
Cominciai invece a sperare che la sua malattia l’avesse abbandonata definitivamente e mi immaginai ancora di poterle parlare, di poterla abbracciare e di vedere ancora il suo dolce sorriso.
Il miracolo fu però breve, poi mia nonna cadde in un sonno profondo da cui non si risvegliò più. I momenti che susseguirono a questo furono solo interminabili silenzi. Tutto era scuro e la sua stanza era pervasa da un forte odore di candela accesa e di morte ormai vicina.
Lei era stesa sul letto, non mangiava e faceva fatica a respirare tanto che le misero due tubicini nel naso, uno per nutrirla e l’altro per toglierle il catarro che si accumulava nei polmoni.
Prendimi l’anima
Il silenzio della sua stanza era intervallato dalle grida della sua anima che reclamava l’eterno riposo. Le stavo accanto giorno e notte e non lasciavo mai la sua mano perché mi ricordai che da giovane mia nonna mi ripeteva spesso questa frase: morirò quando tu non ci sarai perché non voglio che tu mi veda.
E convinta del fato di queste parole rimanevo attaccata al suo capezzale e le stringevo così forte la mano affinché lei avvertisse la mia presenza. Ma non siamo noi a dirigere la vita degli altri. Nessuno ha il diritto di modificare il nostro destino o di scegliere per noi. E quando per un attimo, esausta, mi assentai dal suo capezzale per far riposare un pò le mie stanche ossa, lei avvertì la mia assenza e decise di smettere di respirare. E morì.
Ero profondamente arrabbiata. Non versai una lacrima al suo funerale.
Prendimi l’anima
Gli anni successivi
Degli anni che susseguirono non ho ricordi molto felici se non piccoli momenti in cui la mia anima ululava all’impazzata e si ribellava a quegli enormi muri che la costringevano dentro un corpo. Per mia madre io ero una fallita, una donna che non era stata capace di costruire nulla e che si meritava gli insuccessi che le erano capitati.
Per questo ci ritroviamo spesso a sprecare tante energie per combattere le nostre paure e convincere gli altri della nostra innocenza. Solo che poi impariamo unicamente attraverso l’esperienza. E’ l’unico modo per crescere e rendere più leggero il fardello della vita.
Cosa c’era dentro me dopo la morte di mia nonna?
Una persona che soffriva e che la sera tornando dal lavoro, come tutte le persone di questo mondo desiderava vedere il sorriso delle persone a lei care. La nostra casa è il nostro rifugio, dove possiamo essere noi stessi, dove ci accolgono le persone che amiamo e che ci amano. Eppure non c’era nessuno ad aspettarmi.
Mi rinchiudevo sola nella mia camera aspettando con impazienza il giorno dopo per lasciare la mia casa e tornare al lavoro. Se cercavo lo sguardo di mia madre percepivo il suo scontento per aver avuto una figlia che al posto di diventare un cigno era rimasta per tutta la vita un brutto anatroccolo. Fu allora che mi accorsi di avere dei profondi vuoti d’amore, che cercavo di colmare scegliendo accanto a me uomini strani, che mi attiravano con false caramelle ma che poi mi facevano soffrire.
Corri lupa selvaggia
La mia storia qui si ferma. Quel che successe dopo è stato un lungo cammino di crescita e maturità. La morte di mia nonna ha portato alla mia rinascita. Perché dopo aver vissuto il lutto per interi anni, un giorno ho avuto la forza di guardarmi dentro e ascoltare la voce della mia lupa selvaggia. Fu allora che ho cominciato a demolire gli alti grattacieli innalzare al loro posto bandiere colorate e colombe.
Per anni ho sognato e ancora sogno il volto di mia nonna che mi sorride e nei momenti più duri della mia vita la sento piangere vicino a me per l’impotenza di potermi aiutare.
L’amore per me stessa
Ma lei non sa che non l’ho mai abbandonata, che sento costantemente sempre la sua presenza e che se chiudo gli occhi vedo campi in fiore e un sole splendente e io e lei che camminiamo una accanto all’altra. E mi rendo conto che la vita stessa è un miracolo e che non esiste nulla di assoluto ed eterno e che nessuno può dirci cosa è giusto o cosa sbagliato e che solo noi possiamo abbattere i grattacieli costruiti per difendere la nostra nocciolina e far uscire la lupa selvaggia che c’è in noi. Senza giudizi, senza pregiudizi senza leggi eterne o assolute. Tutti abbiamo il diritto di essere ciò che vogliamo essere.
Corri donna, corri lupa selvaggia, non abbandonare mai la forza e il coraggio.
Prendimi l’anima
Corri donna, attraversa campi dorati e fioriti, fatti accarezzare dal vento e ogni tanto alza lo sguardo per guardare la purezza del bianco delle nuvole e per farti scaldare dai raggi del sole. Ma soprattutto prendi la tua anima tra le mani e siine la sua custode.
Prendimi l’anima
Immagine di Angela Marabese